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ARGOMENTI

Aumenta il peso delle imprese familiari nell’industria italiana

Da una parte le aspettative, dall’altra le richieste delle aziende familiari italiane: questo il focus del convegno “Innovare nella tradizione: le imprese familiari alla sfida del cambiamento”, che ha cercato di sfatare alcuni stereotipi su queste realtà industriali che da sole, in Italia, rappresentano l’85% del tessuto produttivo nazionale. Il secondo appuntamento del ciclo di incontri “Approfondimenti di finanza – Scuola d’impresa 2018”, organizzato dall’Unione degli Industriali della Provincia di Varese e tenutosi nella sede di Gallarate, ha tracciato un preciso identikit delle cosiddette Family Business, anche grazie all’annuale sondaggio di KPMG, “Il barometro delle imprese familiari europee”, realizzato in collaborazione con l’associazione European Family Businesses (EFB), al quale hanno partecipato oltre 1.100 imprenditori di aziende familiari di tutta Europa. “Lo scopo di questi incontri – spiega Marco Crespi, Responsabile Area Finanza e Agevolazioni Industriali di Univa – è offrire agli imprenditori formazione e informazioni sugli strumenti finanziari più adatti per affrontare la gestione quotidiana dell’impresa, attraverso un approccio pratico e operativo. Il tutto anche grazie alla collaborazione di docenti universitari ed istituzioni finanziarie di rilievo”.

I dati

“Le imprese italiane individuano, come maggiore ostacolo alla loro crescita, gli elevati costi delle componenti extra-salariali e dei costi amministrativi che le rendono meno competitive rispetto ai loro concorrenti esteri. In sintesi, chiedono di poter competere con gli stessi strumenti dei loro concorrenti nel mercato globale”, spiega Silvia Rimoldi, Responsabile del Centro di Eccellenza Familiy Business di KPMG. Richiesta più che legittima se si pensa che le imprese italiane a conduzione familiare sono oltre 740mila e valgono il 60% del mercato azionario: “È diffuso il preconcetto secondo cui le Family Business siano perlopiù pmi che si occupano di nicchie di mercato. Al contrario, includono realtà di ogni dimensione, anche quotate, che possono contare su una diversa velocità nelle decisioni strategiche rispetto alle grandi corporate. La capacità di reazione e di resilienza di queste tipologie di aziende non ha pari”, precisa di nuovo Rimoldi.
Restando sul suolo italiano, l’indagine annuale sulle medie imprese industriali realizzata da Mediobanca-Unioncamere mette in luce come le realtà familiari di media dimensione, negli ultimi 20 anni, abbiano rafforzato il proprio peso nella manifattura, arrivando a raddoppiare fatturato (oggi vale il 18,5% del segmento rispetto al  precedente 14,5%) e valore aggiunto (18% contro 12%), registrando un incremento del 30% della forza lavoro e del 10% dell’export (la cui quota è passata dal 33% al 43%). Dati che si ripercuotono in maniera concreta anche sulle aspettative delle imprese stesse che, nel 62% del campione, si dicono pronte ad un’evoluzione positiva nei prossimi 12 mesi. Ma cosa preoccupa maggiormente le aziende a conduzione familiare sparse lungo lo Stivale? Minore redditività (62%), crescente concorrenza (38%), l’inserimento di personale qualificato (29%) e l’incertezza politica (21%) sono in cima alla classifica. Sul versante delle priorità e dei traguardi fissati a breve termine, invece, si leggono riposte facilmente intuibili come l’aumento di fatturato (57%) e una maggiore redditività (64%). Quello che sorprende, piuttosto, è una spiccata propensione all’innovazione, nonché all’internazionalizzazione: “La ricetta, secondo i partecipanti alla ricerca, è perseguire miglioramenti della produttività, il lancio di nuovi prodotti e l’apertura verso nuovi mercati che permettano una differenziazione qualitativa rispetto ai concorrenti, uscendo quindi da una mera ricerca della riduzione dei costi”, chiarisce Silvia Rimoldi.

Il merito nell’accesso al credito

Qual è perciò il futuro delle Family Business? A detta di Pier Mario Barzaghi, KPMG Advisory, insieme alla governance sarà determinante la sostenibilità della crescita delle aziende, fattore che determinerà anche il merito nell’accesso al credito. “Quello che non è un obbligo viene vissuto dall’imprenditore come un costo e non un investimento – spiega Barzaghi –. L’imprenditore ricerca la crescita, la marginalità e nuovi mercati senza valutarne i rischi, che non sono solo finanziari e operativi ma anche reputazionali. Rischi che una governance sostenibile deve tenere in considerazione”.

La difficoltà di passare il testimone

Il passaggio generazionale in azienda, tuttavia, non è sempre facile, anzi nel 50% dei casi il cambio dalla seconda alla terza generazione non riesce neppure. A spiegarlo è stato Johan Bode, esperto in M&A e Governance aziendale, secondo cui i motivi del declino di imprese con una gestione familiare sono riconducibili a tensioni che si vengono a creare nel tempo tra membri della famiglia con poteri uguali e alla mancanza di preparazione ad affrontare problemi complessi. Come ovviare, dunque, a questo problema? “Avendo un sistema di governance, prediligendo la competenza rispetto all’appartenenza, definendo regole per il cambiamento e ultimo, ma non meno importante, coinvolgendo persone esterne alle dinamiche familiari”, chiosa Bode.


Esempi di passaggi generazionali

Ma dopo tanti numeri, statistiche e miti sfatati, qual è l’esperienza di chi il passaggio in azienda l’ha vissuto in prima persona? “La vera sfida è mantenere ciò che è stato creato da chi ti ha preceduto”, spiega Paolo Ferrari, Amministratore Delegato del Gruppo Comoli Ferrari e C. Spa, distributore B2B di materiale elettrico con un fatturato di 400 milioni annui, entrato in azienda a 35 anni dopo l’improvvisa scomparsa del padre. “Si dice che la prima generazione costruisca, la seconda sviluppi e la terza distrugga: pensate un po’ con che spirito ho fatto il mio ingresso nel business di famiglia”, incalza ancora Ferrari, spiegando quanto i passaggi di testimone in azienda siano complessi per entrambe le parti. “Il cambio dovrebbe essere programmato e non improvvisato – conclude l’AD di Comoli Ferrari –. Quando ero il numero due in azienda facevo sogni tranquilli, perché c’era sempre un parafulmine su cui ricadevano tutte (o quasi) le responsabilità, ma ora non è più così”.
Ma c’è anche chi all’età di 50 anni decide di vendere l’impresa di famiglia a un fondo di Private Equity e reinventarsi praticamente da zero. Questo è il caso del business angel Giancarlo Rocchietti, proprietario di Euphon, società quotata in borsa e specializzata nel settore dei servizi multimediali, ora fondatore e Presidente del Club degli Investitori. “Ho creato il più grosso gruppo in Italia che fa questa attività di supporto alle startup innovative, oltre 8.400 realtà – racconta Rocchietti –, perché il 90% dei problemi di un imprenditore può essere risolto da altri imprenditori. Siamo dei capitalisti e non dei filantropi, con tanta voglia di far ritornare competenze e denaro sul territorio in cui siamo nati e in tutta Italia. E vorremmo raggiungere questo obiettivo investendo in imprenditori italiani, anche all’estero e condividendo con loro le nostre esperienze di vita professionale”.