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Uno Scalone che sa di sale

Esperta giuslavorista e direttrice del CeRP - Center for Research on Pensions and Welfare Policies dell'Università di Torino, Elsa Fornero fa per Varesefocus una valutazione sul tema della riforma previdenziale in Italia. E afferma: "Il Paese non ha bisogno di una nuova riforma, bensì della piena e rapida attuazione di quella del '95".

Elena ForneroLa stagione delle riforme previdenziali è cominciata, in Italia, nel 1992 con il governo Amato ed è proseguita nel '95, nel '97 e nel 2004 rispettivamente con i governi Dini, Prodi e Berlusconi. Ciò nonostante, il sistema pensionistico è ancora il grande malato della finanza pubblica; le sue "magagne" includono lo squilibrio finanziario, cioè l'insufficienza sistematica delle entrate contributive a coprire la spesa; la disparità di trattamento entro e tra le generazioni (a vantaggio dei più ricchi la prima e a svantaggio di quelle giovani e future, la seconda); distorsioni, come il "premio" ai pensionamenti precoci; inefficienze, come l'eccessiva dipendenza dal pilastro pubblico e lo scarso ricorso alla previdenza integrativa.
Alla radice di queste problemi vi sono essenzialmente due fattori, che si intersecano, aggravando la situazione complessiva. Il primo è l'eccessiva ingerenza politica nella determinazione delle pensioni: invece di affidarsi a formule matematiche basate sui principi attuariali (eventualmente integrandole là dove socialmente necessario, cioè a vantaggio dei lavoratori più sfortunati), la politica, anche quando apparentemente animata da buone intenzioni, ha finito per frammentare, creare privilegi, usare il sistema per scopi diversi dal "fare buone pensioni".
Il secondo fattore è l'incapacità del sistema tramandatoci dal passato di "aggiustarsi" in modo almeno parzialmente automatico all'invecchiamento della popolazione, promuovendo l'allungamento della vita lavorativa in parallelo con l'allungamento della durata complessiva della vita.
Così, paradossalmente, mentre negli ultimi decenni l'aspettativa di vita è fortemente aumentata, l'età media di pensionamento si è invece ridotta. Sarebbe ingeneroso attribuire questo paradosso soltanto alle pensioni di anzianità e al metodo retributivo di calcolo della pensione, metodo che, guardando soltanto al numero di anni di contribuzione, non incoraggia il proseguimento dell'attività (la tipica formula, per 40 anni di contribuzione, era l'80 per cento di una media delle ultime retribuzioni, indipendentemente dall'età di uscita!). Di certo è stata infatti determinante anche la tendenza a scaricare sulla previdenza gli eccessi di manodopera derivanti da ristrutturazioni industriali, con il comodo ricorso al pre-pensionamento di lavoratori "pseudo-anziani". Sta di fatto che miopi calcoli hanno spesso finito per prevalere sulle visioni di lungo termine, trasferendo oneri sulle generazioni giovani e future.
Lo scioglimento del legame pensioni-politica e la salvaguardia del sistema collettivo di risparmio per l'età anziana da interessi particolari sono stati i grandi obiettivi della riforma del 1995.
Con il metodo contributivo allora introdotto, la pensione dipende dai contributi versati e dall'età di uscita: per dati contributi, a un'età più elevata corrisponde un vitalizio anch'esso più elevato. Il sistema è finanziariamente sostenibile e il pensionamento può essere flessibile, perché il lavoratore sa che se lavora più a lungo percepirà una pensione corrispondentemente più elevata. La previdenza perde il carattere prevalente di (re)distribuzione pubblica di risorse per assumere quello di programma per il trasferimento di risorse dalla vita attiva a quella post-lavorativa, e l'uniformità di trattamento consente di eliminare i privilegi e di includere l'aiuto trasparente ai lavoratori meno fortunati.
Il problema di quella riforma è il lunghissimo tempo richiesto per la sua applicazione, un tempo che, misurandosi in decenni, consente la sopravvivenza di tutti i difetti dell'impianto pre-esistente. Il governo Berlusconi è a sua volta intervenuto sulla transizione, aumentando di tre anni, a partire dal 2008, l'età prevista di pensionamento (il cosiddetto "scalone"), riducendo l'ambito di flessibilità e reintroducendo una differenza di età tra uomo e donna.
I sindacati (ma anche alcuni partiti della maggioranza) chiedono oggi l'abolizione di quel provvedimento, e si riparla pertanto di una nuova riforma, non si capisce se soltanto per cancellare quella del governo Berlusconi.
In realtà, il Paese non ha bisogno di una nuova riforma, bensì della piena e rapida attuazione di quella del '95. Occorre mettere in pratica il metodo contributivo, a partire dalla sua applicazione a tutti i lavoratori, indipendentemente dal numero di anni residui di lavoro (superando perciò la "barriera protettiva" introdotta nel 1995 a favore dei lavoratori con 18 e più anni di anzianità); occorre procedere all'adeguamento di quei coefficienti che trasformano in pensione i contributi maturati all'età di pensionamento e che ovviamente, per funzionare, debbono ridursi all'aumentare dell'aspettativa di vita, un modo, non già per "tagliare le pensioni", ma per indurre le persone a destinare al lavoro almeno una parte della maggiore aspettativa di vita. Occorre rivedere la fascia del pensionamento flessibile: quello che andava bene nel '95 (i 57-65 anni previsti dalla riforma Dini) non è più adeguato oggi, se si considera che la vita attesa a quelle età è aumentata di oltre due anni.
Occorre prevedere la stessa fascia per uomini e donne, ripristinando l'eguaglianza cancellata dalla riforma del 2004.
Il nostro è un Paese che ama fare le riforme sulla carta, molto meno applicarle. Se, per una volta, desse attuazione a una buona riforma che rischia invece di scivolare nell'oblio, potrebbe sfatare un fin troppo facile mito negativo.

02/23/2007

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