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Dove va il contratto nazionale di lavoro

Due autorevoli opinioni, quelle di Pietro Ichino e di Michele Tiraboschi, sul futuro degli assetti contrattuali in Italia.

Doveva essere sottoscritto per Natale. Si erano susseguiti molti segnali ottimistici. Sembrava che questa volta il contratto collettivo nazionale di lavoro dei meccanici potesse essere rinnovato più in fretta e senza le tante difficoltà che, da alcune tornate, accompagnano questa operazione. Invece, così non è stato. Il contratto è stato siglato solo verso la fine di gennaio, dopo numerosi di stop and go. Così, molti sono tornati a sottolineare la vetustà di questo modello contrattuale, che andrebbe sostituito da una contrattazione decentrata, territoriale o aziendale. Le voci però sono ancora discordi. C'è chi teme che far sparire o ridimensionare sensibil-mente il contratto nazionale farebbe aumentare la già elevata conflittualità presente nel nostro paese.
Ma è davvero così difficoltosa la negoziazione collettiva in Italia? E ciò che accade con il contratto dei meccanici si ripete anche con gli altri settori? O i meccanici sono un caso a parte? E quali sono le prospettive della contrattazione collettiva nel nostro Paese? Lo abbiamo chiesto a due esperti, Pietro Ichino e Michele Tiraboschi. Entrambi docenti universitari, impegnati in prima persona a "fare cultura” sul fronte caldo delle relazioni sindacali. Per ciascuno, le stesse cinque domande. Le risposte? Non molto differenti.

A suo avviso, è vero che le relazioni industriali attraversano un momento di crisi oppure è il contratto collettivo dei meccanici a rappresentare un'eccezione rispetto alla situazione generale?
Ichino - Il contratto collettivo di lavoro dei metalmeccanici non è un'eccezione: l'eccezione, semmai, sono i contratti che si stipulano entro la scadenza naturale, come quello dei chimici. Io credo proprio che non sia più adeguata al nostro tempo l'idea stessa del contratto collettivo nazionale come fonte di un modello unico inderogabile di struttura della retribuzione e di organizzazione del lavoro, applicabile.

Tiraboschi - Che il sistema di relazioni industriali sia in crisi è un dato di fatto. Le stesse difficoltà sorte con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici non sono, a ben vedere, la causa, ma semmai una delle conseguenze più evidenti della crisi delle relazioni industriali come metodo diretto a contemperare in modo efficiente le istanze di tutela del lavoro con le esigenze di competitività delle imprese. Non funzionando questo metodo è logica conseguenza anche la crisi degli strumenti che vengono utilizzati tra cui, appunto, il contratto collettivo nazionale di categoria.

E' utile a suo giudizio mettere mano al modello attuale di contrattazione alleggerendo il contratto nazionale a vantaggio di una contrattazione territoriale o aziendale?
Ichino - La mia proposta, che ho esposto nel libro "A che cosa serve il sindacato” (Mondadori), è un'altra: conserviamo pure il contratto nazionale con i suoi contenuti attuali; ma attribuiamogli la funzione di "disciplina di default”, cioè di regola applicabile soltanto là dove non ne sia stata pattuita una diversa a un livello inferiore (regionale, territoriale o aziendale), da una coalizione che a quel livello abbia la maggioranza dei consensi dei lavoratori interessati. Se invece si sceglie di ridurre il contenuto del contratto collettivo nazionale per "fare spazio” alla contrattazione aziendale, si riduce la protezione nelle molte aziende dove la contrattazione stenta ad arrivare; e si resta comunque nella vecchia logica centralistica, nella quale la struttura della retribuzione prevista dal contratto nazionale è immodificabile.
Tiraboschi - La tendenza, a livello comparato e internazionale, è chiaramente verso il decentramento ed è questa la direzione valida anche per il nostro Paese. Solo una contrattazione decentrata può rispondere con flessibilità e tempismo alle logiche imposte dalla internazionalizzazione dei mercati. Fondamentale è dunque ridisegnare i compiti del livello nazionale, ridimensionandoli, per poi valorizzare quel livello decentrato (territorio o azienda) che meglio risponde alle peculiarità di ogni settore produttivo e di ogni azienda.

L'idea che si sta facendo strada, di trasferire la contrattazione in azienda, potrebbe comportare il rischio di un aumento della conflittualità. Vede dei vantaggi che potrebbero almeno compensare tale inconveniente?
Ichino - La conflittualità non nasce dalla struttura della contrattazione collettiva, ma dalla cultura delle parti. La negoziazione al livello aziendale si coniuga benissimo con un sindacalismo cooperativo o addirittura partecipativo. Certo, però, che questo sindacalismo, per affermarsi, ha bisogno di avere di fronte imprenditori di buona qualità: capaci, responsabili e trasparenti.
Tiraboschi - Come ho detto in precedenza il vero problema è la crisi del metodo più che degli strumenti. Si può certo mettere mano agli assetti della contrattazione collettiva e spingere, come avviene negli altri paesi, su un modello più decentrato. I risultati saranno tuttavia assai modesti in assenza di un ripristino della vera essenza del sistema di relazioni industriali che è espressione di una cultura partecipativa e cooperativa. A di là di interventi strutturali, il nodo da sciogliere resta infatti la condivisione o meno da parte del sindacato del metodo delle relazioni industriali come strumento di risoluzione dei problemi del lavoro, là dove il nostro Paese è ancora fortemente condizionato da una presenza anacronistica di sindacalismo conflittuale e antagonista che non crede nel metodo delle relazioni industriali.
Il riassetto dei modelli contrattuali evoca, tra gli altri, il tema della differenziazione territoriale delle retribuzioni. Non si può temere che tutto si riduca semplicemente in un rialzo delle retribuzioni al Nord, con pregiudizio della competitività?
Ichino - La possibilità di negoziazione degli standard di trattamento al livello aziendale consente di adattarli in modo ottimale alle capacità della singola impresa; ma soprattutto consente di aumentare la parte della retribuzione che varia col variare dei risultati, in termini di produttività e/o di redditività, e così di istituire l'incentivo migliore all'impegno dei lavoratori. Se il piano industriale è buono e l'imprenditore merita fiducia, il sindacato che opera come "intelligenza collettiva” dei lavoratori accetta di scommettere su quel piano; poi, quando la scommessa è vinta, controlla che i frutti siano distribuiti secondo quanto pattuito.
Tiraboschi - La revisione degli assetti contrattuali non si limita ai soli profili retributivi. Un contratto aziendale può, se ben gestito, diventare lo strumento con cui avviare l'innovazione organizzativa e gestionale del personale. Oggi parliamo tanto di assetti contrattuali decentrati e assetti retributivi diversificati sui territori, ma ancora pochi sono gli accordi innovativi volti a gestire la flessibilità degli orari di lavori o a introdurre nuovi modelli di organizzazione del lavoro e ridefinire i percorsi di classificazione e inquadramento in funzione di logiche premiali del merito e incentivanti. E questo si può fare solo in azienda.

Si parla anche di ridurre la pressione fiscale sui premi di risultato o, in generale, sulle retribuzioni. Non tutti sono d'accordo. Qual è la sua opinione?
Ichino - Al momento mi sembra che questo sarebbe un buon modo di incominciare a ridurre le tasse: un modo per accompagnare e favorire una evoluzione positiva del sistema delle relazioni industriali.
Tiraboschi - La pressione fiscale comprime la produttività e il merito a vantaggio di una economia sommersa sempre più fiorente e che distorce le regole della concorrenza. I vantaggi di una riduzione della pressione fiscale saranno sempre maggiori dei presunti svantaggi che sono peraltro tutti da dimostrare.

02/22/2008

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