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Un modello tutto italiano di dialogo sociale

Dopo l'approvazione del decreto attuativo della "legge Biagi", le parti sociali sono chiamate a trovare numerose intese previste per completare il quadro della riforma. Un'occasione per un salto di qualità nelle relazioni sindacali.

Michele Graglia - Vice Presidente dell'Unione IndustrialiAvevo già espresso, su Varesefocus dello scorso luglio, alcune perplessità sullo schema di decreto legislativo che doveva dare attuazione alla cosiddetta "legge Biagi", con la quale sono state introdotte significative novità nell'ordinamento del lavoro del nostro paese. Ora, dopo l'approvazione del provvedimento delegato, continuo ad chiedermi se la nuova normativa riuscirà ad innovare il nostro mercato del lavoro per renderlo davvero più moderno, più capace di dare competitività alle imprese e, al tempo stesso, di valorizzare il lavoro nelle nuove tendenze che si vanno manifestando, soprattutto tra i giovani. Certamente i nuovi modelli di contratto di lavoro - come il job on call (lavoro a chiamata in funzione delle esigenze produttive verso il pagamento di un'indennità "di disponibilità"), il job sharing (condivisione di un'unica posizione lavorativa da parte di due lavoratori), lo staff leasing (impiego di lavoratori a tempo indeterminato inviati da agenzie specializzate) - rappresentano una novità importante che può offrire delle opportunità di sviluppo sia alle imprese, le quali possono ampliare i margini di flessibilità della componente "lavoro" e rispondere così meglio alla domanda del mercato; sia a chi lavora, che può ritagliarsi a misura la modalità di impegno più consona alle proprie aspettative o, comunque, può essere facilitato più di prima nell'ingresso nel mercato del lavoro con una prospettiva di futura stabilità.
Di contro, la nuova disciplina legislativa prevede ben 43 rinvii alla contrattazione collettiva affidando così alle parti sociali il compito di scrivere buona parte di questa riforma, di declinare i contenuti in modo equilibrato ed adeguato alle reali esigenze del mercato del lavoro. Si tratta di un compito impegnativo, che attribuisce alle parti sociali una grande responsabilità. Si tratta anche del riconoscimento del ruolo importante che le parti sociali hanno svolto storicamente nel nostro paese, dal secondo Dopoguerra ad oggi. E che richiede, ora, un salto di qualità perché ad esse viene chiesto di trovare insieme le strade per sostenere e ampliare l'occupazione, lasciando dietro le spalle un approccio di contrapposizione. Da questo punto di vista, si può affermare che la legge Biagi rappresenti una pietra miliare nella storia delle relazioni sindacali italiane, sulla scia, peraltro, delle intese raggiunte negli anni scorsi da sindacati, organizzazioni imprenditoriali e governo con la cosiddetta "politica dei redditi", che tanta utilità ha portato al contenimento dell'inflazione e nel conseguire l'ingresso del paese nell'Unione Monetaria Europea.
Il dubbio che questa legge possa estendere il precariato è legittimo, ma sembra eccessivo se si considerano i dati sul mercato del lavoro in Italia dopo l'introduzione, nel 1997, del contratto di lavoro temporaneo (o interinale). Secondo Assointerim, i rapporti di lavoro interinale instaurati nel 2002 sono stati circa 500.000, quindi soltanto il 2,2.% del totale dei rapporti di lavoro subordinato (quasi 22 milioni) in essere alla fine di quell'anno. Di quei 500.000 lavoratori interinali, più di 180.000, pari al 35%, sono stati assunti a tempo indeterminato al termine del contratto temporaneo. Il che porta a dire che la flessibilità è sicuramente un elemento importante per il settore produttivo, ma che le imprese continuano a considerare come un valore il lavoro stabile, oggi più che mai, nel momento in cui il lavoro si è trasformato profondamente con la supremazia della mente sul braccio.
Rimane il fatto che quel dubbio rischia di gettare un'ombra pesante sulla concreta applicazione della legge, alla luce - come detto - della necessità di stipulare i 43 accordi tra le parti sociali. Tanto più che le contaminazioni politiche nel dibattito sindacale accentuano la tendenza a trasformare la nostra tradizionale complessità di approccio ai problemi spingendoci verso una manichea distinzione fra vero o falso, buono o cattivo, accettabile o da combattere.
Sembra infatti, questo il livello del dibattito sulla legge Biagi. Una legge che viene enfatizzata o viene combattuta come se contenesse una ricetta definita, un programma di riforme bloccato, non modificabile dall'intervento delle parti sociali. Da un lato se ne loda l'impianto anche oltre i suoi meriti ed i suoi contenuti, dall'altro se ne vuole disconoscere integralmente il contenuto. Ma è davvero questa l'alternativa alla quale vogliamo rassegnarci?
Ci sono voluti due anni per scrivere la riforma del mercato del lavoro. O meglio, sono stati necessari due anni per il primo decreto di attuazione della legge. Nonostante il tempo trascorso, i contenuti di questa riforma sono poco noti, sono stati ancor meno discussi e compresi proprio da quei soggetti che, a conti fatti, saranno gli attori del successo o dell'insuccesso della riforma: gli addetti ai lavori.
Questa situazione preoccupa. Ma preoccupa anche di più il fatto che, nonostante il gran numero di convegni e di iniziative pubbliche, si preferisca far divampare la polemica piuttosto che il confronto ed il dibattito sui contenuti della riforma.
In questa prospettiva bisogna rimpiangere il tempo perso. Eravamo nell'autunno del 2001, infatti, quando il ministro del Welfare, Roberto Maroni presentò il suo Libro Bianco che conteneva, non solo un'indicazione dei rimedi che il governo intendeva adottare, ma soprattutto una lucidissima analisi dei mali di questo paese ed una chiara individuazione degli obiettivi che l'Europa si dava e, conseguentemente, ci dava.
Tutti ricordiamo bene, purtroppo, i toni ed i contenuti del dibattito di questi due anni. Quante poche energie abbiamo dedicato ai problemi veri. Quanto poco ci siamo sforzati di discutere nuove idee per il mercato del lavoro, capaci di far crescere il livello di occupazione, il livello di benessere, il livello di sviluppo di questo paese, adeguate anche a sostenere il welfare. Su queste sfide avremmo dovuto spendere le nostre migliori energie. Non è stato proprio così ed è arrivato il momento di fare tesoro degli errori commessi nel confronto sindacale degli ultimi anni. E' arrivato il momento di cominciare un confronto sui temi veri del lavoro. E si deve farlo proprio cominciando a discutere il metodo che deve portarci ad adottare nuove regole per il lavoro. Dobbiamo domandarci se il nostro sistema sia maturo per lasciarsi definitivamente alle spalle la concertazione o se chieda, invece, di costruire un modello tutto italiano del dialogo sociale che di quella stagione faccia tesoro.

11/20/2003

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