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Federalismo lo stato dell'arte

Il punto sull'attuazione del federalismo nel nostro paese dopo due interventi legislativi attuati da due governi di diverso orientamento politico.

Il nuovo edificio del Parlamento di Edimburgo. La devolution scozzese risale al 1999
Tra polemiche strumentali e ideologiche, il confronto/scontro sulla riforma della seconda parte della Costituzione sembra aver perso di vista il vero obiettivo della lunga e travagliata transizione istituzionale italiana: un nuovo sistema, più efficiente, in termine di servizi, costi, partecipazione dei cittadini alla formazione dei processi decisionali, individuazione delle responsabilità... Eppure, a inizio legislatura, completare la trasformazione in senso federale dello Stato, in cima alla lista delle priorità programmatiche della coalizione di governo, sembrava possibile. Il percorso era stato delineato: elaborare e approvare le norme attuative della riforma del Titolo V della Costituzione varata dal precedente governo, migliorarla e integrarla, innestandovi la devoluzione; abbandonare l'attuale bicameralismo e istituire una Camera delle Regioni e delle autonomie, o un Senato federale; "regionalizzare" la Consulta, coinvolgendo le Regioni nel meccanismo di nomina dei giudici costituzionali; attuare il federalismo fiscale.
Con tutti i limiti e i problemi mostrati in questi anni - in primo luogo i numerosi ricorsi delle Regioni alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzioni, con la conseguente paralisi dei processi decisionali nel paese - il Titolo V riformato dal precedente governo dell'Ulivo aveva una portata rilevante e, soprattutto, inseriva la transizione federalista in un solco preciso, adattando la Costituzione alla variegata realtà italiana.
Ogni Regione ha storia, tradizioni, capacità e risorse differenti. Le stesse amministrazioni locali, a seconda della natura delle forze politiche da cui sono guidate, possono avere una vocazione federalista più o meno pronunciata. Attraverso il raccordo tra l'articolo 117 (che elenca le materie di competenza dello Stato e delle Regioni) e l'ultimo comma del 116 (che consente alle Regioni interessate di chiedere maggiore autonomia su tutte le materie concorrenti e su alcune esclusive dello Stato), la riforma del Centro-sinistra fotografava dunque questa realtà, offrendo a ogni Regione la possibilità di assumere ulteriori competenze nelle materie e nei tempi più adeguati alle rispettive esigenze e aspirazioni. Il principio adottato era stato "l'autonomia differenziata" sul modello spagnolo, che presuppone un regime di competenze "flessibili" o "negoziali" e prelude a un federalismo "dal basso a più velocità": un processo continuo di ridistribuzione di competenze, funzioni e risorse dal centro alla periferia, sulla base della domanda di autonomia che sale in modo differente da quest'ultima.
Il progetto iniziale di devolution seguiva questa impostazione. Inserendo, nell'articolo 117, la devoluzione alle Regioni della competenza esclusiva su scuola, sanità e polizia locale, si introduceva infatti un ulteriore elemento di "flessibilità", in linea con il Titolo V riformato dall'Ulivo: il principio di "attivazione", in base al quale ogni Regione "può attivare" con propria legge la propria competenza esclusiva sulle tre materie. Quindi nei tempi e su quella delle materie - una, due, tutte e tre oppure nessuna - che ritiene rispondere meglio alla propria situazione particolare.
L'impatto dirompente che la somma tra la precedente riforma del Titolo V e la successiva devolution avrebbe potuto avere sul sistema italiano ha così messo duramente alla prova la vocazione federalista presente all'interno delle forze politiche e nella società. Per la prima volta, la remota possibilità di un cambiamento radicale, che avrebbe messo in discussione equilibri e poteri consolidati, privilegi e clientele, diventava una "minaccia" reale. La paura di arrivare sul serio a un sistema che mette in competizione le Regioni e responsabilizza gli amministratori locali, riavvicina i cittadini alle istituzioni, consente di valorizzare la specificità e la peculiarità del territorio, e rischia di smantellare interi apparati burocratici costosi, non esattamente efficienti e, in prospettiva, privi di ragione di esistere - in breve, un federalismo "variabile e competitivo" - ha avuto la meglio su una propensione federalista forte solo a parole. Dimostrando che, nonostante i proclami, la cultura del federalismo e della sussidiarietà devono ancora fare molta strada per affermarsi.
La reazione è stata - e probabilmente non poteva che essere quella - di un ripiegamento: portare a casa il possibile. Di fronte alle resistenze al cambiamento, i ministri Bossi prima e Calderoli poi, hanno dovuto ingaggiare una "battaglia" federalista combattuta, in primo luogo, all'interno della stessa maggioranza.
Questo cambio di rotta sembra poter spiegare anche la scelta di non dare applicazione a una norma transitoria della riforma del Centro-sinistra in base alla quale, fino alla riforma dell'attuale bicameralismo e all'istituzione di un Senato federale, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali avrebbero potuto far parte, tramite loro rappresentanti, della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Questa Commissione, così integrata, avrebbe potuto intervenire, tra l'altro, nel processo legislativo relativo alla disciplina del federalismo fiscale. Oltre a inserire Regioni ed enti locali nel circuito parlamentare, la Commissione avrebbe potuto anche evitare o ridurre gli innumerevoli conflitti e ricorsi legati, come già detto, alla indeterminatezza dei confini di attribuzione che rappresenta uno dei maggiori inconvenienti della riforma del centro-sinistra. Più volte annunciata, la Commissione non ha mai visto la luce, e questo si è rivelato particolarmente grave sul fronte della finanza regionale e sul trasferimento alle Regioni delle risorse necessarie per fare fronte alle nuove competenze. Come hanno spesso avvertito i "governatori", infatti, il federalismo o è fiscale o non è.
Abolito l'ultimo comma dell'articolo 116, eliminato il principio di attivazione dalla devoluzione, inserita la clausola di salvaguardia, che consente allo Stato di intervenire anche nelle materie di competenza esclusiva delle Regioni, e reintrodotto il concetto di interesse nazionale, dal modello ulivista a competenze negoziali, si passa così a un sistema a competenze rigide. Da una transizione federalista dal basso, al federalismo dall'alto. Dalla flessibilità e il dinamismo di un processo che consente a ogni Regione di assumere ed esercitare, nei tempi più adeguati, le competenze che meglio rispondono alle proprie vocazioni, alla definitiva e contestuale attribuzione di poche e identiche responsabilità a venti realtà regionali, con esigenze, capacità e tradizioni differenti.
Diverse materie sono ritornate alla competenza esclusiva dello Stato. La stessa decisione di affidare alla potestà legislativa statale la tutela della salute e le norme generali sull'istruzione sembra riportare sanità e scuola in regime di competenza concorrente, anziché esclusiva. Rispetto all'attuale testo di riforma, il nuovo Titolo V varato dal governo precedente aveva dunque avuto una valenza riformatrice più radicale, ponendo le premesse per una significativa trasformazione dell'architettura istituzionale. Per arrivare in fondo, il riformismo del Centro-sinistra si sarebbe però dovuto sposare con la spinta al cambiamento leghista: un matrimonio non certo dei più semplici.

01/14/2005

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